lunedì 21 febbraio 2011

Il linguaggio rubato


Il linguaggio rubato

L'unità d'Italia fu anche unità linguistica, spesso lo dimentichiamo. A ricordarcelo in questi mesi è la “Società Dante Alighieri”, l'istituzione che dal 1889 tutela, diffonde e potenzia in Italia e nel mondo la lingua italiana, quel mezzo di comunicazione che ci identifica più e prima di ogni altro.

            Un convegno di pochi giorni fa, organizzato a Roma dalla Dante, ha puntato  l'indice contro uno dei molti mali che affliggono l'italiano: l'appropriazione e conseguente svuotamento del significato originario di molte parole ed espressioni della lingua italiana da parte della politica. La letteratura sull'argomento è vasta e sicuramente si è estesa ancor più durante l'era Berlusconi; i protagonisti del convegno di Roma sono stati il professor Zagrebelsky ed il senatore Carofiglio, entrambi autori di libri sul linguaggio usciti di recente *.

            Gli analisti del linguaggio berlusconiano pare concordino sul fatto che sia lui l'artefice di un nuovo politichese, fin dalla famosa “discesa in campo” del 1994. Espressione rubata al mondo del calcio e che secondo Zagrebelsky è “l'esatto contrario di ciò che dovrebbe accadere in democrazia”; espressione che calza però a pennello con l'agire di un Presidente del Governo che dispone del Parlamento come se fosse la propria squadra di calcio e che probabilmente assimila l'acquisto dei giocatori ad inizio stagione con il comprare deputati in casi di emergenza. Non a caso parla spesso di “squadra di governo” e “governo” è, statisticamente, la parola che il premier ha ripetuto più spesso nel corso del 2010. E' lui inoltre il “difensore della democrazia”, preferibilmente contro il pressing della Magistratura.

            Mi viene spontaneo chiedermi, ogni volta che ascolto un discorso del nostro capo del Governo, quali siano gli elementi della sua dialettica che catturano e conquistano l'attenzione degli italiani. Le sue frasi brevi. Il vocabolario comune, affatto ricercato. La chiarezza, l'immediatezza, la certezza assoluta (“sono sicurissimo che...”, “sono convinto che...”, “non c'è dubbio...”). La dizione relativamente lenta, adatta ad un pubblico infantile. Tutte caratteristiche che moltissimi italiani apprezzano, perché considerano che finalmente qualcuno parla di politica in modo chiaro, alla portata di tutti, con senso comune. Senso comune e chiarezza che, purtroppo, mancano al linguaggio del centrosinistra, che si disperde in mille metafore ed abusa di una miriade di espressioni idiomatiche di cui si fatica ad  interpretare il senso (oggetto di continua ed ironica esegesi è, per esempio, il modo di esprimersi di Bersani; dai suoi “tortelli a misura di bocca” a proposito dei conti pubblici, ai già mitici “tre prosciutti” che “non ci vengono fuori da un maiale”, parlando della Finanziaria. Se poi si vuole “un partito che funzioni come una bocciofila” allora almeno gli over 60 avranno capito di che tipo di partito si tratta).

            Le metafore di Berlusconi sono invece chiare per tutti; il proclamare per esempio di non volere “mettere le mani nelle tasche degli italiani” (a proposito della Finanziaria dello scorso maggio) è un linguaggio proprio di chi gestisce la cosa pubblica come se si trattasse della propria un'azienda privata e, come suggerisce Zagrebelsky,  un'espressione  che “trascina con sé l'idea che pagare le tasse non sia ciò che dice la Costituzione -cioè un dovere di cittadinanza- ma venga considerato come un borseggio”.

            Dalla metafora spiccia alla barzelletta, altro punto di forza del linguaggio berlusconiano, il passo è breve. La barzelletta lo rende accessibile, umano, vicino alla gente comune. Ed è quasi sicuramente la barzelletta ad esprimere il vero, più recondito ed intimo pensiero berlusconiano, ciò che egli davvero pensa del mondo e degli altri. Una  “profonda confessione di sé”, la sua “descrizione più autentica e completa”**. E preferiremmo non ricordare le battute sugli ebrei, l'aids, le donne...

            Vale la pena di ricordare invece la crociata berlusconiana, espressa sempre in termini apocalittici, contro il Comunismo, “che porta fame, miseria e morte”; la sinistra vista come l'espressione del Male, summa di tutto il vecchiume dei tempi della Prima Repubblica, fatto di “apparato”, “burocrazia”, “Stato” inteso come pachiderma sonnacchioso e “dispotico”, “strisciante”, contrapposto con violenza ad un nuovo concetto di democrazia  fondato sull'efficacia e l'immediatezza del marketing. E nella foga  si saccheggia il linguaggio bellico, con  frequenti “entrate in guerra” e  “chiamate alle armi” ed i sempre più frequenti “scontri” tra politica di Governo, Giustizia ed opposizione.

            E la sinistra? Secondo Carofiglio non è bene che rinunci alle metafore; non a caso “oggi il politico italiano che riscuote il maggior successo in pubblico è Nichi Vendola perché i suoi discorsi sono innervati di metafore che alludono all'esperienza sensoriale e non all'astrattezza concettuale. Questo è uno dei suoi punti di forza: l'uso consapevole di metafore che mettono in moto dei meccanismi interiori in chi ascolta".           Personalmente, pur considerando gradevole ed accattivante l'eloquio di Vendola in termini generali, lo associo benevolmente a quello di Mario Ruoppolo, il “Postino” di Troisi: “metafore...metafore...”, metafore troppo spesso fini a sé stesse, che evidentemente non attivano fino in fondo quei “meccanismi interiori di chi ascolta” -e di cui parla Carofiglio- al punto da spingerli a tradurre l'”esperienza sensoriale” in gesti concreti.
            Un linguaggio troppo spesso in codice, quello della nostra sinistra, oggetto quindi di mille interpretazioni e controversie e che, sul piano politico, si diluisce, si frammenta e si disperde in una gamma infinita di sfumature di una stessa idea. Sfumature che non arrivano poi a conciliarsi e fondersi (pensiamo anche solo alla travagliata scelta di un nome che definisse il centrosinistra; tra gli altri, “Uniti nell'ulivo”, “Nuovo ulivo”, “Federazione dell'ulivo”...). La sinistra, in quanto a linguaggio politico, non ha innovato; e forse c'è da dar ragione a Luca Ricolfi quando la accusa di sottile antipatia, che scaturirebbe in parte da una ferma autoconvinzione di superiorità intellettuale ***. In un'epoca in cui gli uomini politici di successo in pubblico sono sempre più spesso sopra le righe od addirittura irriverenti, la sinistra non ha saputo cogliere l' importanza di questa rivoluzione ed “ha alimentato la caccia alle streghe sul terreno della lingua”, accusando la destra di “deriva populista ed esonerando sé stessa da qualsiasi imperativo di cambiamento”***.
            Il linguaggio oscuro stanca ed irrita non solo gli avversari politici ma anche gli elettori. Solo per citare un esempio, alle tre “i” del programma elettorale di Berlusconi nel 2001– inglese, informatica, impresa- tre proposte facilissimamente comprensibili e gradite alle orecchie di qualsiasi cittadino, Rutelli e Fassino opposero le tre “i” nebulose di “Italia, identità, innovazione”, sul cui significato l'elettorato poteva ben scervellarsi.

            Decisamente, una sinistra davvero rivoluzionaria dovrebbe stare con Rosa Luxembourg: iniziare a “chiamare le cose per il loro nome”.

Monica, Salamanca, Spagna

    * Il colloquio della Dante Alighieri nell'ambito dell'iniziativa “Pagine aperte” presentava i libri di Gustavo Zagrebelsky, "Sulla lingua del tempo presente" (Einaudi) e quello di Gianrico Carofiglio, “La manomissione delle parole” (Rizzoli).
    **Martin Rueff, “Berlusconisme, césarisme et langage politique”, scritto per Mediapart
    ***Luca Ricolfi, “Perché siamo antipatici? La sinistra ed il complesso dei migliori” (Longanesi)